Diritti in pillole #2. Separazione consensuale e giudiziale
/in Diritti Donna, News, Tutela legale /da Associazione Donna e DirittiDiritti in pillole. #1 – Assegno di mantenimento
/in Diritti Donna, News, Tutela legale /da Associazione Donna e DirittiIl genitore sociale: vincoli affettivi e tutela dei minori
/in Diritti Donna, News, Tutela legale, Uncategorized /da Associazione Donna e DirittiNon possiamo non tenere in considerazione come in questi anni l’originario nucleo padre e madre uniti in matrimonio con uno o più figli stia piano piano lasciando posto a diverse forme di rapporti con i minori, che danno vita a nuovi modelli di genitorialità. Sarebbe lungo elencare e spiegare tutte le varie e diverse forme che la norma, la giurisprudenza e la prassi ci presentano per adattarsi al mutare della famiglia come nucleo sociale primario, con tutte le conseguenti diverse forme di tutela prevista dalla normativa vigente o dalla giurisprudenza che si è sviluppata attorno ai casi concreti.
Vorrei, quindi, partire dal racconto di una storia vera, posta all’attenzione del Tribunale di Como, chiamato a risolvere una questione riguardante l’affidamento della figlia minore di una coppia, la quale, in esito al disconoscimento di paternità nel frattempo verificatosi, è risultata essere figlia biologica della sola madre. La madre ne ha domandato l’affidamento in via esclusiva, con collocamento presso la propria abitazione. Il Tribunale, nel decidere, ha ancora una volta sottolineato l’importanza della tutela del primario interesse della minore, in questo caso volta a conservare il legame affettivo instaurato con il proprio genitore di fatto, il quale, nonostante mancasse il legame di sangue con la bambina, rappresenta per lei il riferimento più importante e, comunque, la sola figura paterna che abbia mai riconosciuto come tale.
Il minore, dunque, deve essere tutelato ex art.333 c.c. dalle conseguenze pregiudizievoli, per la sua crescita, del conflitto coniugale, che rischia di allontanarlo, una volta disgregato il nucleo familiare, dalla figura del “genitore sociale”, atteso l’interesse dei minori alla stabilità dei legami affettivi con le persone con cui hanno vissuto e alla costituzione di uno stato giuridico corrispondente al rapporto di fatto consolidato nel tempo. Pertanto esaminata la capacità genitoriale dell’uomo il Tribunale nel tentativo di evitare che la madre ponesse in essere nuove condotte oppositive nei confronti del padre – già in precedenza attuate, contrariamente al suo dovere di preservare il diritto della figlia di godere del rapporto intrattenuto con il genitore sociale- decideva di collocare la bambina in via prioritaria presso l’abitazione del padre non biologico, con possibilità di frequentazione da parte della madre.
Un modello genitoriale quello della genitorialità sociale che trova il suo riconoscimento anche nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che promuove quindi un’idea di famiglia come nucleo cementato da vincoli affettivi forti, non necessariamente sorretti dalla relazione biologica. Secondo la Corte europea dei Diritti dell’Uomo, nel valutare l’esistenza di legami familiari si deve tenere conto dei concreti rapporti personali sereni, adeguati, che tengano in realtà conto dell’interesse e delle necessità dei loro figli.
Donna e Diritti – Il nostro webinar
/in Diritti Donna, News, Tutela legale, Uncategorized /da Associazione Donna e DirittiCondividiamo il Webinar del 17 luglio organizzato dalla nostra associazione in collaborazione con AGAR, SAI ed il Sole 24 ore.
Ringraziamo tutti i partecipanti ed i relatori per il prezioso contributo.
Divorzio: se l’ex moglie non lavora che fare?
/0 Commenti/in News, Tutela legale /da Associazione Donna e DirittiAssegno di mantenimento dopo il divorzio: cosa fare se l’ex moglie è disoccupata ma non cerca un posto di lavoro?
La ex moglie non vuol lavorare? Dopo la separazione e il divorzio, non vuol cercare un posto per mantenersi da sola, rassicurata dal fatto che tu stai provvedendo al suo mantenimento? Se davvero le cose stanno così e il suo stato di disoccupazione non dipende piuttosto da fattori estranei alla sua volontà – l’età, le condizioni fisiche, la lontananza per molto tempo dal mondo del lavoro, l’assenza di formazione, ecc. – allora l’assegno di mantenimento può essere tolto. A dirlo è ormai più di una sentenza della Cassazione, l’ultima delle quali di qualche giorno fa.
Da quando la Suprema Corte ha mandato in soffitta il criterio del “tenore di vita” nel calcolo degli alimenti dovuti all’ex e ha detto che tale contributo serve solo ad aiutare colei che, non per propria colpa, non può mantenersi, ai giudici non basta più accertare la differenza di reddito tra marito e moglie per attribuire a quest’ultima il mantenimento dopo il divorzio: serve anche la “certificazione” che abbia tentato di trovare un posto. Ma come? E come fa l’ex marito a dimostrare che la donna se ne sta in panciolle a casa? Cerchiamo di capirlo qui di seguito. Seguendo le stesse istruzioni fornite dalla Cassazione, proveremo a suggerire, in caso di divorzio, che fare se l’ex moglie non lavora. Ma procediamo con ordine.
Quando la moglie disoccupata ha diritto al mantenimento
Giovane, abile e con un titolo di studi: chi mai crederebbe che una donna con tali prerogative non riesce a trovare, nell’arco di un’anno, anche un semplice part-time? Sì, è vero: c’è la crisi e le difficoltà occupazionali. Nelle zone del Sud, una persona su tre è disoccupata (e di queste gran parte è donna). Ma evidentemente queste generalizzazioni alla Cassazione non interessano. La Corte vuole prove concrete che lo stato di disoccupazione sia incolpevole. Solo a questa condizione riconosce l’assegno di mantenimento. È anche possibile pensare che una ragazza di appena 30 anni non riesca a trovare lavoro – sostengono i giudici – ma cosa ha fatto davvero per cercarlo? Questo lo deve dimostrare lei se vuole ottenere gli “alimenti” dopo il divorzio.
Ecco il punto: la donna ha diritto ad essere mantenuta solo se il suo stato di disoccupazione è incolpevole. Che significa? Che tale disoccupazione non deve dipendere da lei ma da fattori esterni come:
- lo stato di salute: sarà quindi l’ex moglie a dover dimostrare di avere una patologia che le impedisce di lavorare;
- l’età: non ci vuole molto a immaginare che una donna che ha superato i cinquant’anni venga più difficilmente assunta, da una azienda, rispetto alla giovane aitante e più motivata ventenne o trentenne. L’avere una “certa età” è sicuramente una difficoltà a volte invalicabile nella ricerca di un posto;
- la lontananza dal lavoro per molto tempo: sarà sempre la donna a dover provare, al giudice del divorzio, di aver fatto – d’accordo col marito – la casalinga per molti anni e che tale situazione l’ha tenuta fuori dal mercato del lavoro, impedendole di aggiornarsi, di fare carriera, di specializzarsi, ecc.;
- la crisi occupazionale: sarà ancora una volta l’ex moglie a dover dimostrare – se davvero vuol ottenere l’assegno di mantenimento – che la sua disoccupazione dipende dal mercato. Il che significa che non le basta genericamente appellarsi alle statistiche dell’Istat che danno sempre in crescita il numero degli inoccupati, ma dovrà produrre le prove di aver cercato un posto. Quali sono queste prove? Non basta l’iscrizione alle liste di collocamento, ma anche l’invio del curriculum alle varie aziende, la richiesta di colloqui di lavoro, la partecipazione a bandi e concorsi nel pubblico e nel privato, ecc.
Cosa fare se la moglie non vuole lavorare?
Come avevamo già detto in Separazione con moglie che non lavora, se nel corso del processo di separazione è più facile per la donna ottenere l’assegno di mantenimento, essendo questo orientato a eliminare le disparità di reddito tra i due ex coniugi e garantire a quello più povero (di solito la donna) lo stesso tenore di vita che aveva col matrimonio, con il divorzio tutto cambia. Qui è la donna che deve dimostrare di non essere in grado di mantenersi da sola e di non avere un reddito sufficiente a garantirle l’autosufficienza. Situazione quest’ultima che, come detto, non basta: è necessario anche integrarla con la prova dell’incolpevole stato di disoccupazione.
Qui l’importante novità: non spetta al marito dimostrare che l’ex moglie, dopo la separazione, se n’è stata sul divano. È piuttosto quest’ultima, se non vuol perdere gli alimenti, a dover provare che si è data pena – e non c’è riuscita – nel cercare un’occupazione. Per come abbiamo detto nel paragrafo precedente, l’onere della prova ai fini dell’attribuzione del mantenimento ricade sulla donna. L’uomo non deve fare nulla se non limitarsi ad eccepire che il mantenimento non è dovuto per causa dell’inerzia nel cercare un’occupazione.
Ecco perché, nella sentenza in commento, i giudici hanno ritenuto di negare l’assegno mensile alla moglie per via della sua «capacità lavorativa e reddituale» (legata alla giovane età e alla formazione professionale), capacità che però lei «non ha messo a frutto». Insufficiente la giustificazione della donna basata sul fatto di «essersi iscritta nelle liste di collocamento senza ricevere risposta» e di «essersi dedicata, all’epoca della separazione, all’accudimento dei figli in tenera età»: tutto ciò non è più sufficiente.
Si può revocare il mantenimento?
E se anche il giudice, in sede di divorzio, dovesse riconoscere all’ex moglie un assegno divorzile, non finisce qua: se il marito dovesse raccogliere, nel futuro, le prove dell’inerzia della donna nella ricerca del lavoro, potrebbe di nuovo chiedere una modifica delle condizioni economiche e quindi dell’ammontare dell’assegno. In verità, la legge dice che tale modifica è concessa solo quando cambiano le condizioni di reddito di uno dei due coniugi, cosa che potrà essere dimostrata ad esempio con una riduzione in busta paga o con l’aumento di spesa collegata all’insorgere di una nuova famiglia o di un nuovo figlio. Quindi, per l’ex moglie, non è mai detta l’ultima parola.
Adozione con maternità surrogata
/0 Commenti/in News, Tutela legale, Vita Lavoro /da Associazione Donna e DirittiÈ possibile adottare il figlio del compagno concepito con maternità surrogata?
La risposta è sì.
Ma attenzione, ciò che il Tribunale riconosce non è l’adozione da parte di una coppia gay, ma riconosce l’adozione in casi particolari come previsto già nell’art. 44 della L.184 del 1983 sulle adozioni. Il suddetto articolo prevede la possibilità che il genitore non biologico adotti il figlio naturale o adottivo dell’altro nel caso in cui l’altro genitore sia morto o rinunci alle sue prerogative. Va sottolineato che il termine coniuge viene inteso in modo generico relativamente al sesso.
Solo però con la sentenza n. 299/2014 del Tribunale dei Minorenni di Roma che ha riconosciuto ad una donna il diritto di adottare la figlia della propria compagna, si comincia a parlare della possibilità di adottare il figlio del proprio compagno omosessuale.
Il tribunale con le proprie sentenze ancora una volta corre più veloce del Legislatore colmando in via interpretativa il vuoto normativo.
Questo trend positivo trova la sua giustificazione nella società e nel modo in cui questa interpreta i concetti di famiglia, di matrimonio e di coppia. Ad essere ritenute degne di tutela, quindi, non sono solo le famiglie fondate sul matrimonio, ma anche quelle che, comunque, costituiscono una formazione sociale idonea a consentire e a favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione (Corte Costituzionale n. 138/2010).
Il Tribunale dei Minorenni di Roma con più sentenze in merito, proprio applicando il principio sopra indicato e previsto nell’art. 44 della legge sulle adozioni, ha riconosciuto l’adozione dei figli da parte del partners omosessuale del genitore naturale.
Il Tribunale, infatti, ha posto la sua attenzione, sul fatto che ciò che deve spingere il Giudice a prendere una decisione in merito alla adottabilità del figlio del compagno omosessuale non sia il pregiudizio in parte diffuso nella società, ma il benessere e la tutela di un sano sviluppo psicologico del minore. Il Tribunale, infatti, quale organo superiore di tutela del benessere psicofisico dei bambini, non può e non deve aderire stigmatizzando una genitorialità “diversa”, ma parimenti sana e meritevole di essere riconosciuta in quanto tale.
Adozione Legittimante e Adozione “semi-piena”
In Italia, infatti, accanto all’adozione c.d. legittimante, abbiamo l’adozione “semi piena” o in casi particolari.
Con la l’adozione legittimante, il figlio adottivo diventa figlio della coppia adottante, come se fosse legittimo (ecco perchè si chiama legittimante) o, come si dice oggi, figlio nato nel matrimonio e gli adottanti devono essere in possesso di alcuni requisiti.
Successivamente all’adozione legittimante:
- l’adottato sostituisce il proprio cognome, con quello dei genitori adottivi e lo può trasferire ai propri figli;
- come già detto, si costituisce un rapporto di filiazione a 360° fra figlio e genitori adottivi e conseguentemente,
- l’adottato acquista la parentela con tutti i componenti della famiglia dei genitori adottivi;
- ne consegue che ogni legame giuridico fra adottato e la sua famiglia d’origine (biologica) viene definitivamente troncato, sopravvivono solo i divieti matrimoniali.
L’adozione in casi particolari, lo dice la sua stessa dizione, è concessa solo in casi ben precisi e tassativamente indicati dalla legge, nel senso che non possono essere aggiunti, neanche in via interpretativa, altri.
E’ stata prevista per favorire il consolidamento dei rapporti tra il minore e i parenti o le persone che già se ne prendono cura, così da proteggere il minore stesso, anche se non sussistono tutti i requisiti per l’adozione legittimante.
Non sono, quindi, richiesti i requisiti stringenti per quest’ultima adozione e, di conseguenza, non ne vengono neanche riconosciuti tutti gli effetti: ecco perchè l’adozione in casi particolari viene anche chiamate “semi piena”.
Con l’adozione semi piena:
- il minore acquista lo stato di figlio adottivo dell’adottante;
- per il minore, permangono tutti i diritti e i doveri verso la famiglia di origine, anche se i genitori biologici perdono la responsabilità genitoriale;
- il minore antepone, al proprio, il cognome dell’adottante;
- non si crea alcun legame di parentela con i componenti della famiglia dell’adottante;
- l’adottato ha gli stessi diritti successori del figlio legittimo, mentre l’adottante non ha alcun diritto successorio sul figlio adottivo;
- il genitore adottivo ha il dovere di mantenere, istruire ed educare l’adottato; assume la responsabilità genitoriale; amministra i beni del minore, ma non ha l’usufrutto sugli stessi;
- l’adottante e adottato hanno il reciproco dovere di prestare gli alimenti, l’uno nei confronti dell’altro.
Al Tribunale pertanto si può chiedere la c.d adozione semi piena prevista dall’art. 44 L. 184/1983 sulle adozioni primo comma lettera d). Sarà dunque l’interesse del minore a far propendere per la sua adozioni in casi particolari da parte anche di una coppia non sposata sia etero che omosessuale.
In fondo, far ricadere la scelta su una coppia sposata, perchè stabile, oggi giorno, esprime un criterio che fa acqua, perchè con l’aumento esponenziale delle separazioni e dei divorzi, il vincolo matrimoniale non è più sinonimo di stabilità.
L’art. 44, poi, non contiene alcuna discriminazione fra coppie in base al loro orientamento sessuale e se mai fosse interpretato in tale senso, si violerebbe la Costituzione.
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