Il genitore sociale: vincoli affettivi e tutela dei minori
/in Diritti Donna, News, Tutela legale, Uncategorized /da Associazione Donna e DirittiNon possiamo non tenere in considerazione come in questi anni l’originario nucleo padre e madre uniti in matrimonio con uno o più figli stia piano piano lasciando posto a diverse forme di rapporti con i minori, che danno vita a nuovi modelli di genitorialità. Sarebbe lungo elencare e spiegare tutte le varie e diverse forme che la norma, la giurisprudenza e la prassi ci presentano per adattarsi al mutare della famiglia come nucleo sociale primario, con tutte le conseguenti diverse forme di tutela prevista dalla normativa vigente o dalla giurisprudenza che si è sviluppata attorno ai casi concreti.
Vorrei, quindi, partire dal racconto di una storia vera, posta all’attenzione del Tribunale di Como, chiamato a risolvere una questione riguardante l’affidamento della figlia minore di una coppia, la quale, in esito al disconoscimento di paternità nel frattempo verificatosi, è risultata essere figlia biologica della sola madre. La madre ne ha domandato l’affidamento in via esclusiva, con collocamento presso la propria abitazione. Il Tribunale, nel decidere, ha ancora una volta sottolineato l’importanza della tutela del primario interesse della minore, in questo caso volta a conservare il legame affettivo instaurato con il proprio genitore di fatto, il quale, nonostante mancasse il legame di sangue con la bambina, rappresenta per lei il riferimento più importante e, comunque, la sola figura paterna che abbia mai riconosciuto come tale.
Il minore, dunque, deve essere tutelato ex art.333 c.c. dalle conseguenze pregiudizievoli, per la sua crescita, del conflitto coniugale, che rischia di allontanarlo, una volta disgregato il nucleo familiare, dalla figura del “genitore sociale”, atteso l’interesse dei minori alla stabilità dei legami affettivi con le persone con cui hanno vissuto e alla costituzione di uno stato giuridico corrispondente al rapporto di fatto consolidato nel tempo. Pertanto esaminata la capacità genitoriale dell’uomo il Tribunale nel tentativo di evitare che la madre ponesse in essere nuove condotte oppositive nei confronti del padre – già in precedenza attuate, contrariamente al suo dovere di preservare il diritto della figlia di godere del rapporto intrattenuto con il genitore sociale- decideva di collocare la bambina in via prioritaria presso l’abitazione del padre non biologico, con possibilità di frequentazione da parte della madre.
Un modello genitoriale quello della genitorialità sociale che trova il suo riconoscimento anche nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che promuove quindi un’idea di famiglia come nucleo cementato da vincoli affettivi forti, non necessariamente sorretti dalla relazione biologica. Secondo la Corte europea dei Diritti dell’Uomo, nel valutare l’esistenza di legami familiari si deve tenere conto dei concreti rapporti personali sereni, adeguati, che tengano in realtà conto dell’interesse e delle necessità dei loro figli.
Donna e Diritti – Il nostro webinar
/in Diritti Donna, News, Tutela legale, Uncategorized /da Associazione Donna e DirittiCondividiamo il Webinar del 17 luglio organizzato dalla nostra associazione in collaborazione con AGAR, SAI ed il Sole 24 ore.
Ringraziamo tutti i partecipanti ed i relatori per il prezioso contributo.
Attività tutela diritti
/0 Commenti/in News /da Associazione Donna e DirittiPost in fase di aggiornamento
STALKING capiamo cos’è
/0 Commenti/in Diritti Donna, News /da Associazione Donna e DirittiLo stalking è un reato introdotto nell’ordinamento penale italiano con il d.l. 11/2009attraverso l’inserimento dell’art 612 bis, con il quale viene stabilito che:
salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato o da persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.
Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.
Con questo articolo il nostro legislatore ha voluto trovare una risposta sanzionatoria a quei comportamenti che prima dell’introduzione della novità normativa venivano inquadrati in altre fattispecie di reato meno gravi, come per esempio la minaccia e che non riuscivano di fatto a tutelare in maniera adeguata la vittima delle gravi condotte poste in essere dal persecutore.
Quali gli elementi che caratterizzano lo stalking
L’elemento oggettivo dello stalking è rappresentato dalla reiterazione delle condotte persecutorie, idonee a cagionare nella vittima un “perdurante e grave stato di ansia o di paura”, determinando un ”fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva”, ciò significa che determinante per capire se si tratta di stalking è l’alterazione da parte della vittima delle proprie abitudini di vita per paura di subire un danno grave ed irreparabile da parte del persecutore.
L’elemento soggettivo dello stalking è il dolo generico, ovvero la volontà di porre in essere condotte di minaccia e molestia. E’ sufficiente dunque la coscienza e volontà delle singole condotte. È altresì necessaria la consapevolezza che ognuna di esse andrà ad aggiungersi alle precedenti formando una serie di comportamenti offensivi ai danni della vittima .
Come è punito lo stalking:
Come previsto dall’art. 612-bis del codice il reato di stalking è punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni, salvo che il fatto non costituisca un reato più grave e di procede a querela della persona offesa. Il termine per poter proporre querela è di sei mesi, e inizia a decorrere dal momento in cui il reato è consumato, ovvero dal momento in cui la persona offesa altera le proprie abitudini di vita o ricade in uno stato di ansia o di paura.
La querela non è revocabile se il fatto viene commesso sulla base di quanto previsto dal secondo comma dell’art. 612 c.p., e il reato è procedibile d’ufficio nel caso in cui vi siano le aggravanti previste dal terzo comma dello stesso articolo 612 bis c.p.
Divieto di avvicinamento
A tutela della parte offesa, la norma introduce nuove tipologie di misure cautelari prevedendo anche come nuova misura il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. In questo modo il Legislatore ha cercato di dare una risposta concreta per evitare il protrarsi del disagio nella vittima. Lo stalker al quale viene comminata tale restrizione cautelare non potrà avvicinarsi quindi ai luoghi frequentati dalla persona offesa e dai suoi familiari e non potrà avere contatti telefonici o di altro genere con la persona offesa.
Non è un paese per single: il mobbing sulle donne “senza famiglia”
/0 Commenti/in Diritti Donna, News /da Associazione Donna e DirittiCostrette a prendere le ferie nei periodi più scomodi e spesso molestate psicologicamente e/o sessualmente: in Italia, così come in molti altri Paesi, il fatto di essere “libera” non paga, e diventa spesso un’arma a doppio taglio per donne che, paradossalmente, hanno investito energie proprio per garantirsi il massimo dell’indipendenza. Ne abbiamo parlato con Alessandra Menelao, responsabile nazionale dei centri di ascolto Mobbing&Stalking della Uil, e con Adelia Lucattini, psichiatra psicoterapeuta e psicoanalista di Roma. Scoprendo che l’Italia, oltre a non essere un Paese per mamme, non è neanche un Paese per single.
Si parla spesso di mobbing ai danni delle donne e, in particolare, di lavoratrici che sono anche madri, ed è certamente questa la forma più violenta, subdola e dolorosa di porre in atto questa forma di maltrattamento psicofisico sul lavoro.
Esiste però anche un altro tipo di mobbing, meno appariscente, forse anche meno conosciuto e codificato, figlio di evoluzioni sociali sviluppatesi negli ultimi 10-15 anni e quindi non ancora ben riconoscibili e riconosciute: il mobbing a danno delle donne single.
Lavoratrici, cioè, che non hanno figli e in molti casi neanche un compagno e che quindi, per il solo fatto di essere considerate totalmente “libere”, sono costrette a sopportare un sovraccarico lavorativo e psicologico che da colleghi e superiori viene talvolta sottovalutato se non completamente ignorato.
Ferie scomode e molestie sessuali
“Le ferie sul lavoro – spiega Alessandra Menelao, responsabile nazionale dei centri di ascolto Mobbing&Stalking della Uil – sono organizzate sulla base di scelte organizzative che, talvolta, possono essere influenzate anche dal fattore “singletudine”, favorendo le donne con i figli. Questo è un fenomeno che si verifica molto spesso nei luoghi di lavoro privati. Le donne single subiscono, inoltre, il mobbing sessuale, ovvero molestie messe in atto da colleghi e superiori, finalizzate a danneggiare immagine e carriera della persona in questione”.
“Ogni giovane donna – spiega Adelia Lucattini, psichiatra psicoterapeuta e psicoanalista di Roma – si è trovata a dover affrontare le forche caudine degli ammiccamenti o delle battute a sfondo sessuale, o tentativi di seduzione e inviti, almeno una volta nella propria vita professionale. Ma questa è un’evenienza meno frequente di quello che si pensi, soprattutto dopo la regolamentazione dal punto di vista legislativo delle molestie sul posto di lavoro. Da una single sul posto di lavoro ci si aspetta, inoltre, maggiore flessibilità negli orari, maggiore disponibilità di tempo e flessibilità nell’accettare trasferte esterne o spostamenti in altre sedi. Di fatto, anche queste donne subiscono una sorta di discriminazione che le porta a rinunciare, all’inizio magari volontariamente, in seguito per non perdere le posizioni professionali acquisite, a una vita privata, sia con un compagno che con dei figli”.
Le ferie sono un punto critico e, spiega Lucattini, anche se ufficialmente questo non è riconosciuto né viene ammesso, i turni più scomodi, i ponti, i periodi in cui ci sono vacanze scolastiche, vengono solitamente dati a donne che non hanno famiglia. “Tutti i single, nell’ambito del mondo del lavoro, ricevono in realtà un trattamento diverso rispetto alle persone che hanno una famiglia propria, ma alle donne viene spesso riservato un trattamento “speciale”, discriminante, figlio di un retroterra culturale che non concepisce o non accetta la lavoratrice come libera e indipendente”, precisa la psichiatra.
Pressioni psicologiche
Le pressioni, su queste donne, vengono esercitate in vari modi, dalla richiesta fatta come “favore personale” da parte di superiori o o colleghi, a situazioni di cattiva redistribuzione dei carichi di lavoro, in cambio di prospettive di avanzamento di carriera e ferie future. “Spesso questo tipo di “violenze” vengono esercitate in modo formalmente corretto e legalmente inattaccabile – continua Lucattini – e si tratta principalmente di pressioni psicologiche o di forme di “captatio benevolentiae” che presuppongono o garantiscono gratificazioni future. Purtroppo, l’esperienza mostra che non sempre questi sacrifici vengono ripagati in modo equilibrato, né con un mutuo scambio di favori tra colleghi, né con la garanzia che la serietà personale e la disponibilità vengano interpretate correttamente come “merito”, aprendo reali prospettive di riconoscimento personale o eventuali avanzamenti professionali”.
È necessario precisare, continua Lucattini, che in alcuni ambienti professionali, soprattutto dirigenziali, viene esplicitamente chiesto alle donne single non tanto di non sposarsi o non avere un compagno, ma di non avere figli per un certo periodo, di solito pari a due anni, e spesso vengono favorite le donne che hanno un compagno nella stessa azienda. “Questo tipo di situazione, spesso riscontrata parlando con pazienti, costituisce di per sé un condizionamento psicologico importante, perché una donna che ha fatto un grande investimento su se stessa dal punto di vista degli studi, della formazione e della professione, può vivere più o meno consapevolmente come un “danno” il fatto di perdere lo status di single. Da questo condizionamento possono derivare conseguenze diverse: alcune donne si sentono costrette a nascondere di avere una relazione e a comportarsi sul luogo di lavoro come se fossero single o non riuscissero a ingaggiare e a impegnarsi in relazioni che potrebbero essere vissute come un ostacolo rispetto alla propria realizzazione personale, favorendo così una dissociazione tra gli aspetti affettivi, emotivi, sentimentali della vita e quelli intellettuali e lavorativi”.
Rapporto problematico con i colleghi
I colleghi, spiega Menelao, raramente testimoniano a favore della lavoratrice single quando questa denuncia le molestie subìte e i superiori difficilmente credono alle denunce delle donne single, né lottano affinché venga dato loro adeguato supporto da parte dell’azienda. La donna single, sul luogo di lavoro, può infatti essere vissuta come un’avversaria o una “preda” potenziale. “Questo – spiega Lucattini – comporta una certa aggressività da parte dei colleghi uomini ma anche delle colleghe coniugate”.
Le madri hanno, d’altro canto, delle esigenze molto particolari, in quanto costrette a dividersi tra lavoro, casa e famiglia. “Accade che si appoggino o scarichino le proprie tensioni, le proprie necessità sulle colleghe single – spiega Lucattini – a cui possono rivolgersi chiedendo aiuto, favori, premure. Se ci sono asperità tra donne con figlie e donne senza figli, queste dipendono quasi sempre da rapporti di lavoro. Più frequente invece è la solidarietà tra donne con figli, che tendono a fare gruppo nei confronti delle colleghe single, erroneamente viste come delle “privilegiate”, con più tempo a disposizione per se stesse e anche per il lavoro”.
Eccessive pretese dei capi ufficio
Per quanto riguarda, invece, i capi ufficio, ci sono dei superiori che hanno l’attitudine paterna e che vivono le giovani dipendenti single come delle figlie, da cui pretendono e che magari mettono anche sotto pressione ma con un’attenzione particolare, finalizzata alla loro crescita professionale e talvolta anche personale. “Ci sono però altre situazioni – continua Lucattini – in cui i superiori, in virtù del loro ruolo, mostrano un atteggiamento di pretesa nei confronti delle donne single soprattutto se giovane o ai primi incarichi. Pretesa sia sul versante professionale, in termini di disponibilità di orario, flessibilità, mansioni extracontrattuali, talvolta anche di livello inferiore rispetto alla qualifica per cui la donna è stata assunta, sia sul piano personale, attraverso la seduzione e il corteggiamento”.
Un problema culturale
“Le politiche che si fanno in Italia – precisa Menelao – non tengono conto del fatto che una persona single ha costi di vita fissi e mensili che deve per forza sostenere da sola. Per queste donne, manca totalmente una progettazione politica dei diritti e del lavoro”.
L’Italia non è insomma un paese per donne “sole”. Da noi vige ancora una cultura tradizionalista che vede i soggetti femminili come madri e mogli, relegando ai padri i ruoli inessenziali nella gestione della famiglia. “Alle donne single – conclude Menelao – non viene perdonata la libertà di scelta, di autodeterminazione e di autosufficienza. Fortunatamente, queste donne sono meno scisse degli uomini e riescono spesso a trovare molteplici interessi capaci di riempir loro la vita”.D
Dentisti ‘sentinelle’ contro la violenza sulle donne
/0 Commenti/in News /da Associazione Donna e Diritti Il viso, i denti. Ma anche la lingua e i tessuti molli, come le guance. Con lesioni traumatiche che a volte possono essere ripetute e che dipingono un quadro clinico che non è occasionale. Sono diversi i segni che può lasciare una presunta violenza nei confronti di una donna e per i quali il dentista può essere una ‘sentinella’ importante. Per questo c’è un protocollo d’intesa tra la Fondazione Doppia Difesa Onlus (presieduta da Michelle Hunziker) e l’Associazione nazionale dentisti italiani, Andi, nell’ambito del progetto “Dentista sentinella”. Come spiega il presidente Andi, Carlo Ghirlanda, negli “oltre 60.000 studi odontoiatrici i dentisti vedono ogni giorno molti pazienti” ed è proprio da loro che può partire un’intercettazione precoce degli abusi. Serve però la formazione. “Abbiamo studiato un protocollo di lavoro, creato un corso per la definizione e il riconoscimento precoce – aggiunge Ghirlanda – dai primi di maggio sarà online.
È importante anche per sapere quali passaggi fare”. Negli studi saranno distribuite 100mila brochure. “Doppia Difesa – prosegue – mette a disposizione un numero, l’ascolto, un riferimento psicologico e anche sotto il profilo legale”.
“Aiutare le donne vittime a riconoscere le violenze è fondamentale-sottolinea Michelle Hunziker – sminuirle comporta seri rischi per la loro stessa vita”. “Le discipline sulla privacy e sul segreto professionale impongono vincoli all’attivita’ degli odontoiatri, rendendoli testimoni ‘muti’ – rileva Ghirlanda – Per questo abbiamo realizzato il progetto’Dentista sentinella’, voluto fortemente dalle dentiste donne,che ha lo scopo anche di definire una procedura confidenziale di segnalazione alle autorità”. È in via di definizione un percorso con l’interlocuzione con il Dipartimento per le pari opportunità e il Ministero dell’Interno.
Divorzio: se l’ex moglie non lavora che fare?
/0 Commenti/in News, Tutela legale /da Associazione Donna e DirittiAssegno di mantenimento dopo il divorzio: cosa fare se l’ex moglie è disoccupata ma non cerca un posto di lavoro?
La ex moglie non vuol lavorare? Dopo la separazione e il divorzio, non vuol cercare un posto per mantenersi da sola, rassicurata dal fatto che tu stai provvedendo al suo mantenimento? Se davvero le cose stanno così e il suo stato di disoccupazione non dipende piuttosto da fattori estranei alla sua volontà – l’età, le condizioni fisiche, la lontananza per molto tempo dal mondo del lavoro, l’assenza di formazione, ecc. – allora l’assegno di mantenimento può essere tolto. A dirlo è ormai più di una sentenza della Cassazione, l’ultima delle quali di qualche giorno fa.
Da quando la Suprema Corte ha mandato in soffitta il criterio del “tenore di vita” nel calcolo degli alimenti dovuti all’ex e ha detto che tale contributo serve solo ad aiutare colei che, non per propria colpa, non può mantenersi, ai giudici non basta più accertare la differenza di reddito tra marito e moglie per attribuire a quest’ultima il mantenimento dopo il divorzio: serve anche la “certificazione” che abbia tentato di trovare un posto. Ma come? E come fa l’ex marito a dimostrare che la donna se ne sta in panciolle a casa? Cerchiamo di capirlo qui di seguito. Seguendo le stesse istruzioni fornite dalla Cassazione, proveremo a suggerire, in caso di divorzio, che fare se l’ex moglie non lavora. Ma procediamo con ordine.
Quando la moglie disoccupata ha diritto al mantenimento
Giovane, abile e con un titolo di studi: chi mai crederebbe che una donna con tali prerogative non riesce a trovare, nell’arco di un’anno, anche un semplice part-time? Sì, è vero: c’è la crisi e le difficoltà occupazionali. Nelle zone del Sud, una persona su tre è disoccupata (e di queste gran parte è donna). Ma evidentemente queste generalizzazioni alla Cassazione non interessano. La Corte vuole prove concrete che lo stato di disoccupazione sia incolpevole. Solo a questa condizione riconosce l’assegno di mantenimento. È anche possibile pensare che una ragazza di appena 30 anni non riesca a trovare lavoro – sostengono i giudici – ma cosa ha fatto davvero per cercarlo? Questo lo deve dimostrare lei se vuole ottenere gli “alimenti” dopo il divorzio.
Ecco il punto: la donna ha diritto ad essere mantenuta solo se il suo stato di disoccupazione è incolpevole. Che significa? Che tale disoccupazione non deve dipendere da lei ma da fattori esterni come:
- lo stato di salute: sarà quindi l’ex moglie a dover dimostrare di avere una patologia che le impedisce di lavorare;
- l’età: non ci vuole molto a immaginare che una donna che ha superato i cinquant’anni venga più difficilmente assunta, da una azienda, rispetto alla giovane aitante e più motivata ventenne o trentenne. L’avere una “certa età” è sicuramente una difficoltà a volte invalicabile nella ricerca di un posto;
- la lontananza dal lavoro per molto tempo: sarà sempre la donna a dover provare, al giudice del divorzio, di aver fatto – d’accordo col marito – la casalinga per molti anni e che tale situazione l’ha tenuta fuori dal mercato del lavoro, impedendole di aggiornarsi, di fare carriera, di specializzarsi, ecc.;
- la crisi occupazionale: sarà ancora una volta l’ex moglie a dover dimostrare – se davvero vuol ottenere l’assegno di mantenimento – che la sua disoccupazione dipende dal mercato. Il che significa che non le basta genericamente appellarsi alle statistiche dell’Istat che danno sempre in crescita il numero degli inoccupati, ma dovrà produrre le prove di aver cercato un posto. Quali sono queste prove? Non basta l’iscrizione alle liste di collocamento, ma anche l’invio del curriculum alle varie aziende, la richiesta di colloqui di lavoro, la partecipazione a bandi e concorsi nel pubblico e nel privato, ecc.
Cosa fare se la moglie non vuole lavorare?
Come avevamo già detto in Separazione con moglie che non lavora, se nel corso del processo di separazione è più facile per la donna ottenere l’assegno di mantenimento, essendo questo orientato a eliminare le disparità di reddito tra i due ex coniugi e garantire a quello più povero (di solito la donna) lo stesso tenore di vita che aveva col matrimonio, con il divorzio tutto cambia. Qui è la donna che deve dimostrare di non essere in grado di mantenersi da sola e di non avere un reddito sufficiente a garantirle l’autosufficienza. Situazione quest’ultima che, come detto, non basta: è necessario anche integrarla con la prova dell’incolpevole stato di disoccupazione.
Qui l’importante novità: non spetta al marito dimostrare che l’ex moglie, dopo la separazione, se n’è stata sul divano. È piuttosto quest’ultima, se non vuol perdere gli alimenti, a dover provare che si è data pena – e non c’è riuscita – nel cercare un’occupazione. Per come abbiamo detto nel paragrafo precedente, l’onere della prova ai fini dell’attribuzione del mantenimento ricade sulla donna. L’uomo non deve fare nulla se non limitarsi ad eccepire che il mantenimento non è dovuto per causa dell’inerzia nel cercare un’occupazione.
Ecco perché, nella sentenza in commento, i giudici hanno ritenuto di negare l’assegno mensile alla moglie per via della sua «capacità lavorativa e reddituale» (legata alla giovane età e alla formazione professionale), capacità che però lei «non ha messo a frutto». Insufficiente la giustificazione della donna basata sul fatto di «essersi iscritta nelle liste di collocamento senza ricevere risposta» e di «essersi dedicata, all’epoca della separazione, all’accudimento dei figli in tenera età»: tutto ciò non è più sufficiente.
Si può revocare il mantenimento?
E se anche il giudice, in sede di divorzio, dovesse riconoscere all’ex moglie un assegno divorzile, non finisce qua: se il marito dovesse raccogliere, nel futuro, le prove dell’inerzia della donna nella ricerca del lavoro, potrebbe di nuovo chiedere una modifica delle condizioni economiche e quindi dell’ammontare dell’assegno. In verità, la legge dice che tale modifica è concessa solo quando cambiano le condizioni di reddito di uno dei due coniugi, cosa che potrà essere dimostrata ad esempio con una riduzione in busta paga o con l’aumento di spesa collegata all’insorgere di una nuova famiglia o di un nuovo figlio. Quindi, per l’ex moglie, non è mai detta l’ultima parola.
Il primo assegno di mantenimento per una coppia gay
/0 Commenti/in News /da Associazione Donna e DirittiPrimo assegno di mantenimento relativo ad un divorzio giudiziario di una coppia costituita da persone dello stesso sesso dopo l’entrata in vigore della legge 20 maggio 2016, n.76, sulle unioni civili. Le due iniziano a convivere nel 2013, una di Pordenone, l’altra veneta. Quest’ultima, con un ridimensionamento della sua carriera, si trasferisce nella città friulana, dove inizia la convivenza, poi il matrimonio, poi le liti, poi il divorzio.
Il Tribunale, con una sentenza innovativa, ai fini della determinazione dell’assegno divorzile, ha espresso importanti principi: è stato preso in considerazione anche il periodo di convivenza che le due donne hanno avuto prima del rito civile, avvenuto nel 2016; è stata presa in considerazione la “perdita di chance”, da parte della donna che aveva trasferito la propria sede di lavoro per seguire la compagna, per il danno lavorativo che ha subito, a seguito del trasferimento a Pordenone e la definizione del suo rapporto di lavoro, in essere nella città in cui risiedeva. Il Tribunale dunque ha ritenuto che in relazione a scelte riconducibili alla vita comune e all’aver accettato di fatto una attività meno remunerata rispetto a quella antecedente alla vita di coppia debba essere riconosciuta la perdita di chance e di opportunità lavorative. Il Giudice ha stabilito un assegno di mantenimento per il coniuge più debole.
Nella speranza che tale sentenza costituisca un riferimento per le decisioni future dei Tribunali in Italia, non solo in relazione ai divorzi tra coppie dello stesso sesso, ma anche per quelle eterosessuali: i Giudici della separazione e del divorzio tra coniugi non riconoscono né il periodo di convivenza, anteriore al matrimonio, né la “perdita di chance” che tante donne subiscono o per seguire i mariti che per lavoro vengono trasferiti o per dedicarsi alla famiglia.
VIOLENZA DOMESTICA
/0 Commenti/in Diritti Donna, News /da Associazione Donna e DirittiCHE COS’È LA VIOLENZA DOMESTICA. Un grande lavoro fatto dalle donne dei Centri in questi anni è stato non solo di sfatare i miti e i luoghi comuni che circolano, ancora ai nostri giorni, sulle cause della violenza, ma anche di analizzare la violenza domestica nei suoi molteplici aspetti e far conoscere le conseguenze che si riscontrano nelle donne e nei bambini che la subiscono. La violenza domestica è quasi sempre un insieme di aggressioni fisiche, psicologiche e sessuali a cui si accompagnano spesso le deprivazioni economiche. Non sono violenza solo le percosse, le ferite o le ossa rotte, ma anche le minacce, gli insulti, i riscatti, le umiliazioni, la derisione, il prendere la donna per scema o per pazza, spesso in presenza dei figli terrorizzati, l’impedirle d’incontrare i propri amici o familiari e l’imposizione violenta dei rapporti sessuali. Le deprivazioni economiche vanno dal ridurre al minimo il denaro di cui può disporre, al controllo asfissiante sul suo uso, al prosciugamento del conto bancario, al coinvolgimento forzato in spericolate operazioni finanziarie, al mancato pagamento dell’assegno stabilito dal Giudice in sede di separazione legale. Di fronte a questi e ad altri atti di violenza nei confronti delle donne, la società non può fare finta di nulla, intendendo per società non solo le istituzioni, ma anche tutte le cittadine e i cittadini consapevoli. Nessun testimone di violenza può essere giustificato se gira la faccia da un’altra parte.
CONSEGUENZE SU DONNE E BAMBINI. La violenza domestica contro la donna è una violazione dei diritti umani che causa profonde ferite nel suo corpo e nella sua mente. Anche i figli, spesso spettatori passivi e impotenti, restano segnati da questa esperienza traumatica: il loro diritto a vivere e crescere in un ambiente sicuro viene calpestato. Conoscere le conseguenze della violenza domestica può aiutare a capire perché una donna reagisca in un certo modo o perché un/a bambino/a assuma certi comportamenti. Può contribuire a rompere il silenzio che circonda questo fenomeno.
GLI EFFETTI DELLA VIOLENZA DOMESTICA SULLE DONNE. La donna che subisce violenze domestiche richiede interventi sanitari in misura molto maggiore delle altre donne; spesso è costretta a recarsi dal medico o al Pronto Soccorso perché é stata ferita o ustionata, perché ha lividi, fratture, lesioni, perché ha contratto dal partner, marito o compagno, malattie veneree o per abortire, a seguito di violente aggressioni fisiche. Vive nella paura continua di sbagliare, di dire o fare qualcosa che possa scatenare la reazione violenta del maltrattatore; si sente insicura e indifesa. nella propria casa; é perennemente in ansia per sé e per i propri figli; ha disturbi del sonno e della digestione. Gli insulti, le offese, le umiliazioni, le minacce, che spesso precedono o accompagnano la violenza fisica, intaccano giorno dopo giorno la stima di sé, la portano a essere passiva, incapace di prendere decisioni, a cadere nella depressione o a pensare al suicidio; anche queste sono “ferite” che devono essere curate e che richiedono interventi specialistici e tempi lunghi per essere rimarginate. Alcune cercano di minimizzare o negare il problema; altre ricorrono all’uso di alcool o droghe per tentare di sopravvivere alla sofferenza e al dolore di una vita personale e familiare distrutta. A tutto questo si sommano spesso danni materiali: molte donne hanno rinunciato ad un’occupazione fuori casa per accudire ai figli, altre devono frequentemente assentarsi dal lavoro o addirittura lasciarlo – a seguito di attacchi particolarmente violenti o perché insultate e minacciate anche di fronte a colleghi o datori di lavoro – e si ritrovano così totalmente dipendenti dal partner, escluse, limitate o controllate nell’uso del denaro a disposizione in famiglia. Se poi decidono di separarsi, alla sofferenza e al dolore per una relazione fallita e finita, si aggiungono le difficoltà materiali per pagare le spese di una separazione (che in una situazione di violenza può essere lunga e difficile), per far fronte a impegni economici non voluti, spesso assunti sotto minacce o costrizioni, per trovare o ri-trovare lavoro, con la prospettiva reale di perdere il tenore di vita precedente. Ciascuna donna reagisce in modo diverso, ma tutte soffrono della solitudine e dell’indifferenza sociale: spesso non vengono credute, perché il loro partner, fuori della famiglia, è una persona “normale”, insospettabile, perdono le loro amicizie, si sentono sole, piene di dubbi, di vergogna e di sensi di colpa. É importante Ascoltare la donna e credere a quello che dice; questo contribuisce a rompere l’isolamento. Non giudicarla e darle fiducia; questo contribuisce a ridarle forza e stima di se stessa. Indirizzarla a un Centro antiviolenza specializzato; insieme ad altre donne potrà decidere come uscire dalla violenza e riappropriarsi della propria vita.
GLI EFFETTI DELLA VIOLENZA DOMESTICA SUI FIGLI. Assistere a episodi di violenza del padre contro la madre è per un/a bambino/a un’esperienza traumatica, da cui viene segnato/a profondamente. Può essere ferito/a nel tentativo di proteggere la madre o può essere vittima diretta della violenza. Ma anche quando non viene coinvolto/a direttamente, vive nell’incertezza, nella tensione, nella paura; non capisce che cosa stia accadendo, si sente impotente e spesso pensa di essere la causa della violenza. Anche se non è detto che diventerà un/a adulto/a che esercita o subisce violenza, è dai genitori che impara come muoversi nel mondo, come comportarsi con gli altri: a volte si identifica col padre maltrattante, perché percepito più forte e tende a disprezzare la madre; a volte si assume responsabilità da adulto/a, cercando di proteggere la madre o i fratelli dalle aggressioni. Ciascuno/a reagisce in modo diverso, a seconda della frequenza e dell’intensità degli attacchi, della sua età e del suo sesso, ma l’aver assistito, magari nella stessa stanza, alla violenza del padre contro la madre, avrà gravi, indelebili conseguenze sul suo sviluppo emotivo e cognitivo. Alcuni esprimono rabbia e aggressività: è così che hanno imparato a reagire ai conflitti. Altri si chiudono in se stessi, si isolano e diventano eccessivamente passivi: è così che hanno imparato a evitare le esplosioni di violenza. Hanno problemi di sonno, disturbi dell’alimentazione, difficoltà a scuola. Per gli adolescenti, poi, la conquista dell’autonomia e la capacità di controllare le proprie emozioni diventano estremamente difficili in un contesto di violenza familiare: i ragazzi e le ragazze possono cercare di fuggire dalla situazione e dai problemi con l’uso di alcol e droghe o con matrimoni e gravidanze precoci, o rifiutare la scuola, o comportarsi in modo aggressivo fino alla delinquenza; possono soffrire di ansia e depressione ed arrivare a pensare al suicidio. La violenza domestica, insomma, priva i figli di un ambiente sicuro in cui giocare, crescere e vivere serenamente la propria infanzia e la propria adolescenza. É importante: Ascoltare il bambino o la bambina e credere a ciò che dice: forse è la prima volta che parla di questo terribile segreto. Rassicurarlo/a: quello che succede in casa non è colpa sua. Aiutare e sostenere la madre: questo è spesso un modo efficace per proteggere anche i figli.
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